Un bicchiere di frizzantino marziano
Il Cava spagnolo è un vino frizzante prodotto da secoli vicino a Barcellona. Un vino spagnolo che ha però anche un leggero sapore spaziale. Che c’è sotto il Cava?
Il Cava è un vino leggero, bianco e frizzantino, simile allo champagne francese. Viene prodotto nella regione del Penedés, in Catalogna, e ha un notevole successo: 130 milioni di bottiglie ogni anno, il 60% del quale venduto sul mercato statunitense con il nome di Freixenet.
Come vuole la tradizione vecchia di secoli, il Cava viene ottenuto facendo fermentare l’uva con un po’ di lievito, che libera biossido di carbonio e dalla cui fermentazione dipende la qualità del vino. È chiaro dunque che la fermentazione deve essere controllato con attenzione: e per questo l’azienda produttrice ha adottato una tecnologia che era stata sviluppata dall’ESA.
Sono infatti stati adottati dei sensori sviluppati dall’ESA in previsione di una base permanente abitata sulla Luna oppure dello sbarco su Marte: il loro compito è di rilevare l’attività di batteri nitrogenanti nel corso della catena di riciclaggio del cibo, dell’ossigeno e dell’acqua.
Questi stessi sensori sono stati installati dai produttori di Cava proprio per misurare e quantificare l’attività biologica del lievito: mentre i sensori disponibili sinora misuravano le proprietà di trasparenza ottica del campione analizzato, i nuovi sensori sono sensibili alle proprietà elettriche, che si sono rivelate più affidabili.
Quindi si tratta di un esempio di trasferimento tecnologico: una tecnologia creata per una certa applicazione spaziale che viene usata con successo anche sulla Terra. È cosi?
Certamente: fra l’altro non si tratta del prodotto finale di un progetto, ma di un’applicazione che salta fuori da un programma nel corso della sua implementazione. Questo dà la misura di quanto ricche e feconde di possibili applicazioni siano le ricerche spaziali, a patto che ci sia una grande circolazione di idee. I primi uomini che avranno l’avventura di sbarcare su Marte potranno contare soltanto su se stessi e sulle risorse che hanno con loro: è fondamentale mettere a punto un sistema di riciclo che consente il minimo spreco. Il progetto Melissa (un acronimo che sta per Micro-Ecological Life Support System Alternative) si basa sull’utilizzo di microrganismi e di piante per dar luogo a un ecosistema artificiale che possa essere utilizzato come supporto per la vita nel corso di una missione spaziale di lunga durata. L’idea è quella di riuscire a recuperare acqua potabile cibo e ossigeno a partire dal biossido di carbonio, dai minerali di scarto, dall’urina e dalle feci prodotti nel corso della missione stessa. I rifiuti sono processati dalle piante, che contribuiscono alla produzione di ossigeno e alla purificazione dell’acqua, e al tempo stesso forniscono cibo.
Si tratterebbe in pratica di creare un sistema di riciclaggio del tutto naturale. Come funziona?
Ci sono quattro compartimenti addetti a singole funzioni: il primo è il compartimento di liquefazione: batteri termofili, che abitano cioè ambienti a temperatura elevata, sono mantenuti a 55 gradi °C e vivono in una ambiente privo di ossigeno. Il loro compito è di trasformare i rifiuti in idrogeno molecolare, nitrati, biossidi carbonio, acidi grassi gassosi, minerali.
I prodotti vengono poi passati nel II compartimento, dove per esempio, gli acidi grassi vengono resi disponibili già come possibili alimenti, mentre il biossido di carbonio è instradato direttamente al IV compartimento.
Al III compartimento arrivano gli ioni ammonio e i minerali ed è dedicato alla nitrificazione, cioè alla trasformazione degli ioni ammonio in nitrati. È proprio qui che trovano applicazione i sensori di cui si parlava inizialmente.
L’ultimo compartimento è infine il regno delle alghe e delle piante evolute, come per esempio orzo, patate, soia, spinaci, lattuga, cipolle.
Insomma, l’intero ciclo, partendo da rifiuti organici e utilizzando processi naturali, rifornisce di ossigeno, cibo, acqua i “coltivatori spaziale”.
Ma Marte potrà mai essere un pianeta realmente abitabile, con un’atmosfera respirabile e con vere e proprie coltivazioni come sulla Terra?
Posto che sia possibile, allo stato attuale delle conoscenze è un progetto che possiamo pensare di condurre in centinaia di secoli: Marte è un deserto con una temperatura media molto bassa e un’atmosfera estremamente rarefatta. Sarebbe necessario in primo luogo aumentare la pressione atmosferica, in modo da rendere possibile l’esistenza di acqua allo stato liquido.
Sono stati proposti vari metodi per ispessire l’atmosfera di Marte e riscaldare il pianeta, e in ultima analisi tutti fanno leva sull’incremento dell’effetto serra marziano: si potrebbe, secondo alcuni, utilizzare enormi specchi di 250 km di diametro che, riflettendo la luce solare, come giganteschi specchi ustori, sciolgano le calotte polari di Marte. Questo, secondo alcuni, determinerebbe un notevole rilascio di biossido di carbonio, che il gas che sulla terra è il responsabile maggiore dell’effetto serra. Un’altra possibilità è quella di “inquinare” l’atmosfera di Marte con gas che hanno un notevole effetto serra.
Questi sono senz’altro progetti proiettati nel futuro. Ma ci sono aspetti realizzabili già oggi, che nel contesto della realtà che viviamo, assumono aspetti surreali. Basti considerare, per esempio, che con uno sforzo finanziario paragonabile a un anno di guerra in Iraq si potrebbe riprendere un serio programma per portare l’uomo sulla Luna prima e su Marte poi.